Un nuovo Illuminismo?
Rossella Spinaci
Varie voci del pensiero contemporaneo, provenienti da ambiti filosofici molto diversificati, segnalano la necessità di riconsiderare i rapporti intercorrenti tra indagine filosofica, scienza e fede, al fine di superare le difficoltà che si presentano nel contesto della civiltà presente, a riguardo del dialogo tra diverse culture e appartenenze religiose. Richiami a tali importanti temi si trovano nel pensiero di J. Habermas, H. Putnam, Benedetto XVI, autori che hanno avvertito l’urgenza di realizzare anche un confronto diretto tra le loro rispettive posizioni (Habermas-Putnam; Habermas-Ratzinger). In questo breve scritto prenderò in esame alcuni dei temi emersi nel dibattito, che non si è sviluppato solo in rapporto a questioni relative alla civiltà europea, ma che offre importanti spunti circa questa.
Norme e valori
Il confronto tra Habermas e Putnam si sviluppa in una serie di scritti recenti, dove i temi di cui stiamo trattando sono affrontati soprattutto in rapporto alla questione della relazione esistente tra valori e norme1. Mentre per Putnam è possibile affermare l’esistenza di valori che godono di una validità universale, per Habermas tale universalità compete solo alle norme giustificate all’interno di una situazione linguistica ideale. Putnam si impegna a mostrare che una netta dicotomia tra valori e norme, così come quella tra fatti e valori, non ha ragione di sussistere, proprio perché anche i valori godono della proprietà dell’oggettività e sono passibili di verità; di essi si può quindi discutere razionalmente cercando di vagliarli criticamente. Dal punto di vista del filosofo americano non basta però, per garantire la validità del confronto discorsivo, che siano rispettate le condizioni di una “situazione linguistica ideale” in senso puramente normativo. Infatti, per stabilire se si sta discutendo rispettando tali condizioni, non si potrà prescindere dal “valutare” l’atteggiamento delle persone che partecipano alla discussione e si dovranno utilizzare necessariamente “termini etici spessi”, che uniscono in sé una componente descrittiva ed una valutativa, intrecciate inscindibilmente tra loro. Putnam presenta l’esempio di una discussione che verta sulla presunta crudeltà di un padre nei confronti del figlio: i partecipanti ad essa potrebbero non arrivare mai ad una conclusione adeguata, pur rispettando le condizioni di parità dialogica richiesta, perché mancanti delle caratteristiche formulabili utilizzando il vocabolario etico “spesso” appropriato 2. La dottrina sviluppata da Habermas per Putnam può perciò essere considerata condizione necessaria, ma non sufficiente dell’etica, in quanto da sola non riesce ad indicare i criteri per dimostrare che effettivamente la conclusione cui si arriva mediante la discussione sia ragionevolmente la migliore3. Inoltre secondo Putnam la posizione di Habermas, che si richiama ad una concezione kantiana “minimalista”, fatica a rendere ragione del dialogo che potrebbe attuarsi tra mondi culturali diversi quando l’uno non utilizzi più, o non abbia mai utilizzato, alcuni concetti etici “spessi”, considerati fondamentali dall’altro. In un caso come questo - Putnam porta l’esempio del termine “casto” – è legittimo impegnarsi nella discussione allo scopo di giungere ad un vocabolario comune e ad una comprensione condivisa. «Tuttavia, a meno che non ci sia qualcosa che assomigli ad una risposta corretta a questioni di tal genere, questa discussione non può veramente costituire uno sforzo di trovare una risposta a favore della quale militino le migliori ragioni»4. Se si lega però l’acquisizione di concetti di tal tipo al possibile raggiungimento del consenso all’interno di una discussione vertente su norme che ad essi si ispirano – è giusto evitare il comportamento non casto? – si dovrebbe arrivare alla conclusione che se l’accordo non è raggiunto, il concetto in questione è destinato ad essere abbandonato5. Malgrado Putnam sottolinei che la difficoltà ora avanzata riguarda più la concezione di Apel che quella attualmente sostenuta da Habermas, ritiene che essa comunque vada risolta segnando i limiti dell’etica del discorso e spostando la discussione, così come Dewey ha indicato, anche sulla “razionalità” e “oggettività” dei valori. Si tratta di un’oggettività in parte diversa da quella che vale in altri domini di conoscenza e che coincide con la “asseribilità garantita”; i valori oggettivi nascono «dalla critica delle nostre valutazioni» attraverso la libera discussione6.
Verità e giustezza normativa
Della risposta che Habermas fornisce all’articolo di Putnam ora analizzato ritengo importante mettere in luce soprattutto due aspetti, fondamentali per il tema che stiamo trattando: in primo luogo egli obietta al filosofo americano che questi non riconoscere la differenza tra la nozione di verità (utilizzata in riferimento ad enunciati descrittivi) e quella di validità relativa ad enunciati etici; in secondo luogo egli sottolinea che la pretesa avanzata da Putnam di affermare l’oggettività dei valori mette in pericolo il carattere universalistico dell’etica e la possibilità stessa di una concezione democratica pluralistica7. La prima obiezione in realtà è articolabile in due momenti: Putnam tende erroneamente a ricondurre la nozione di verità di enunciati valutativi a quella propria degli enunciati empirici; egli inoltre vuole riconoscere pari oggettività a valori e norme. Habermas sottolinea che il problema in relazione al primo punto sta nel fatto che enunciati etici possano appunto essere veri o falsi, come quelli empirici, pur non dovendo possedere, in quanto tali, alcuna valenza descrittiva. Egli sottolinea come Putnam, pur riconoscendo validi molti aspetti della concezione kantiana, neghi valore alla giusta distinzione da questi realizzata tra l’oggettività degli enunciati assertori d’esperienza e quella dei giudizi morali, che hanno obbligatorietà categorica 8. Per Habermas gli argomenti portati da Putnam a sostegno delle sue tesi non hanno vero valore probante: per esempio a suo avviso non è corretto richiamarsi al fatto che oltre che valori etici ne esistono anche di epistemici; a suo avviso la verità non è un bene, del quale si possa prendere più o meno possesso, ma un concetto di validità9. A riguardo poi dell’argomento presentato da Putnam, a favore dell’oggettività dei valori, relativo alla possibilità di porre a confronto diverse concezioni di vita, Habermas precisa che a differenza di quanto avviene nel campo delle teorie scientifiche, non si deve cercare di ricondurre ad unità il dissenso che può esistere circa diverse visioni del mondo; il vero pluralismo deve prevedere la possibilità di un dissenso ragionevole, che evita qualsiasi tentativo di convincere gli altri della giustezza della propria posizione10. Mi sembra che Habermas con quest’ultima osservazione confonda la questione di fatto con quella di diritto; va riconosciuta la legittimità di una varietà di visioni della vita, ma ciò non implica che il dialogo tra esse non porti ad un cambiamento, anch’esso legittimo, di posizione, verso una concezione ritenuta ragionevolmente “migliore”. Habermas ribadisce invece che le domande etico-esistenziali - quali che cos’è il bene per me, chi sono – vanno affrontate secondo la prospettiva della “prima persona”; la risposta a queste è sempre legata a particolari condizioni culturali e storiche ed in tal senso non si può avanzare al loro riguardo nessuna pretesa di validità universale, che va invece sollevata in rapporto a contenuti normativi non relativi a contesti contingenti11. Habermas chiarisce quindi che “giusti” sono quei giudizi morali che meritano il riconoscimento universale, cioè che possono trovare l’approvazione di tutte le persone coinvolte, all’interno di un discorso razionale condotto in condizioni approssimate all’ideale. Anche per il filosofo tedesco esiste una analogia tra la pretesa alla verità degli enunciati e quella legata alla giustezza: entrambe infatti sono soddisfacibili solo discorsivamente; rimane tuttavia una profonda differenza tra le due, in quanto la seconda, a differenza della prima, ha perso la valenza ontologica implicata nella nozione di “trascendenza rispetto alla giustificazione”; la verità di enunciati, cioè, va oltre la giustificazione idealizzata, mentre la nozione di giustezza coincide con quella di dignità al riconoscimento universale.
Oggettività dei valori
Nello scritto di risposta all’intervento di Habermas Putnam ribadisce come si realizzi nell’interpretazione del filosofo tedesco un involontario fraintendimento del proprio pensiero. Egli afferma infatti che questi, oltre a non rispondere alla fondamentale obiezione che lui stesso gli muove, relativa alla effettiva capacità dell’etica del discorso a giustificare norme, gli attribuisce erroneamente la tesi che tutti gli enunciati empirici abbiano un unico tipo di validità. A tal riguardo il filosofo americano chiarisce che non esiste una classe omogenea di enunciati empirici corretti; essi infatti corrispondono alla realtà in vario modo, in quanto nascono all’interno di una varietà di giochi linguistici. Vi possono essere alcune asserzioni - quale «il comportamento dei colonizzatori europei nei confronti degli indigeni è stato molto crudele» - che sono allo stesso tempo enunciati empirici e giudizi di valore12. Ciò però non implica che affermazioni esprimenti imperativi siano empiriche. Putnam vuole insomma chiarire, “contro” Habermas, che i vari tipi di enunciati empirici esistenti fanno riferimento a diverse nozioni di validità e di prova e che la verità di norme non è affatto riconducibile a quella di enunciati empirici. Poiché quindi non attribuisce al termine “vero” alcun significato univoco, Putnam preferisce essere definito “pluralista”, piuttosto che “realista su tutta la linea”13. I chiarimenti realizzati dal filosofo americano circa la propria posizione mi sembrano convincenti; rimane però a mio avviso in parte aperto il problema relativo alla nozione di “verità” dei valori. Habermas rimprovera a Putnam di far coincidere la validità di enunciati etici con quella di asserti empirici, in realtà questi afferma che in rapporto ai valori la verità consiste, diversamente che per altri domini di conoscenza, dove la verità può appunto trascendere la giustificazione, con la nozione di asseribilità garantita. Non avrebbe infatti senso ammettere che c’è una buona soluzione ad un problema etico e che nel medesimo tempo gli esseri umani siano incapaci di riconoscerla14. In tal senso non è affatto la nozione di “corrispondenza alla realtà” che qualifica la validità di enunciati valutativi. Perciò se è vero che Putnam propone di superare la dicotomia tra fatti e valori, non si può dire che consideri questi fondati ontologicamente; l’etica ha infatti a che fare, come Dewey indica, con la risoluzione di problemi pratici ed in tal senso i “valori” emergono dalla discussione razionale, non esistono come «oggetti misteriosi e soprasensibili che trascendono i nostri giochi linguistici»15. L’etica deve perciò sganciarsi definitivamente dall’ontologia. Ma in base a quale criteri allora giudicheremo della bontà di un valore? Basta la sua eventuale capacità di “risolvere problemi” per garantirne l’oggettività e la verità? Non c’è il rischio che “buono” diventi ciò su cui ci si trova d’accordo nella discussione? In tal caso, per paradosso, la posizione di Putnam non si troverebbe così lontana da quella di Habermas, da lui criticata. Ciò mi sembra confermato da quanto questi sottolinea in Verità e giustificazione, dove afferma di aver mutato la propria concezione di verità a riguardo dell’ambito degli enunciati descrittivi, poiché non pensa più possibile far coincidere questa con l’accettabilità razionale. Egli ritiene ancora, invece, che in rapporto alla giustezza normativa la giustificazione razionale all’interno di un discorso valga come criterio fondamentalmente unico di validità16. Certamente Putnam differentemente da Habermas ribadisce che alcune concezioni possono essere vere e false, malgrado non si raggiunga mai il consenso su di esse; tuttavia non mi pare che le questioni ora poste trovino una soluzione conclusiva all’interno del suo pensiero, cui va comunque riconosciuto il costante e fecondo impegno a non relegare i valori nell’ambito di ciò che è privo di validità cognitiva17. Tale impegno acquista importanza, come adesso vedremo, anche al fine di un confronto tra culture diverse.
Pluralismo
Per Habermas, come già sottolineato, i principi dell’universalismo, i diritti dell’uomo e la democrazia, pur sostenuti così decisamente da Putnam, non si conciliano con un’etica pragmatica dei valori. Mentre il filosofo americano sostiene la possibilità, nel caso in cui vi sia bisogno di regole, di creare un vocabolario comune tra persone appartenenti a diverse civiltà, secondo Habermas questo risulta essere difficilmente possibile, poiché per la costruzione di convinzioni di valore razionali è necessario presupporre un’idea intersoggettivamente condivisa di che cos’è il bene comune18. Per Habermas il ricorso all’argomentazione e alla “razionalità procedurale”, in situazioni quali quelle ora descritte, non è in grado di risolvere le difficoltà sollevate. Infatti a suo avviso i vari tentativi di soluzione di problemi, attraverso un confronto argomentativo riguardante valori, non possono venir attuati che nella “prospettiva verticale della prima persona plurale”. è possibile cioè attuare “comportamenti intelligenti” condivisi, a riguardo di valori, solo all’interno di un medesimo mondo della vita. I discorsi pratici, invece, richiedono che si superino i limiti delle singole visioni del mondo in una prospettiva “ orizzontale” di prima persona plurale, che implica l’ inclusione dell’altro. Solo da tale prospettiva è possibile verificare se una norma corrisponde all’interesse di tutti i coinvolti nella discussione. Per Habermas, perciò, piuttosto che riferirsi a Dewey - ed Aristotele - come fa Putnam, è più utile seguire la lezione di Kant e di Mead, che afferma che il punto di vista morale può venir attuato solo se tutte le persone coinvolte assumono una prospettiva reciproca simmetrica superando punti di vista particolaristici e etnocentrici . I conflitti di carattere normativo possono venir risolti con il rispetto di un legittimo pluralismo di visioni della vita, solo se le parti in contesa assumono reciprocamente un prospettiva di prima persona plurale inclusiva dell’altro19.
Putnam in risposta a quanto affermato da Habermas sottolinea che il riconoscimento del carattere oggettivo dei valori non è in contraddizione con una visione pluralistica. Egli, che distingue tra pluralismo e semplice “tolleranza”, fornisce una definizione minimale di questo – non posso ritenere “illuminata” solo la mia visione della vita e “oscura” quella degli altri – e una più “forte”, che Habermas sembra non condividere: «io devo accettare che almeno alcuni uomini, che hanno forme di vita, tradizioni religiose, orientamenti sessuali diversi dai miei dispongano di concezioni che io non possiedo o che non ho sviluppato in egual misura, proprio in quanto essi hanno altre forme di vita, tradizioni religiose, orientamenti sessuali»20. Ciò significa che vi possono essere valori che gli appartenenti ad altre civiltà giudicano vere, la cui acquisizione potrebbe giovare ai membri della mia comunità. Invece nell’ottica di Habermas, ritenuta da Putnam alquanto angusta, in rapporto a valori provenienti da altre civiltà è unicamente possibile chiedersi se essi sono ammissibili, nel senso che non violano alcuna norma universalistica, oppure se porterebbero vantaggio ad un progetto di vita collettiva, dal punto di vista di tutti coloro che in essa fossero coinvolti. Putnam, ritornando all’esempio della castità e delle visioni contrastanti riguardo ad essa presenti nella civiltà contemporanea, ribadisce che il dissenso non concerne solo le possibili ripercussioni che alcune pratiche di vita possono avere su tutte le persone coinvolte in esse. Esso riguarda piuttosto la possibilità di sviluppare un concetto “ricco e sensibile” di vita buona. Egli ribadisce cioè che l’oggettività di espressioni come “castità”, “crudeltà” e di tutte le altre necessarie all’etica del discorso, quali “rispetto dell’altro”, “non manipolazione”, si fonda non sul fatto che esse godono di un universale riconoscimento di valore, ma sulla loro intrinseca validità contenutistica.
Ragione e fede in dialogo
Il dialogo tra Habermas e Ratzinger, diversamente da quello condotto con Putnam, si muove in un contesto più fortemente collegato alla riflessione politica21. Ad avviso del filosofo tedesco, che prende spunto da un’affermazione di Böckenförde, non è necessario né dal punto di vista cognitivo, né da quello motivazionale che la costituzione di uno stato liberale trovi legittimazioni teoriche esterne ad esso, legate ad esempio a tradizioni religiose o metafisiche22. Tuttavia l’epoca presente incontra una minaccia a tale legittimazione in una “modernizzazione aberrante della società presa nel suo complesso”, che tende a distruggere la particolare forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende23. Habermas allude a fenomeni di estremo individualismo nella prassi economica e politica diffusa nell’attuale società globalizzata. Egli, che ritiene inadeguata l’analisi di questa crisi attuata dal pensiero postmoderno e sostiene un concetto “non disfattistico” di ragione, nega che per uscire da tale situazione di impasse si debba fare ricorso necessariamente ad un orientamento religioso; tuttavia egli intende egualmente attuare un confronto con esso, in quanto le religioni sembrano favorire il mantenimento di quei valori di solidarietà che sono indispensabili alla vita di uno stato democratico. La persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare rappresenta secondo Habermas una sfida cognitiva che la filosofia deve prendere sul serio, non solo nel senso che deve dimostrare rispetto per essa, ma anche nel senso che da essa può imparare. Habermas, che sembra quasi recepire quanto Putnam stesso lo invitava a fare, sottolinea che la filosofia non solo deve dimostrare rispetto verso le religioni, ma imparare da esse. Egli ritiene quindi che nell’attuale contesto di civiltà sia necessario acquisire un punto di vista “post-secolare”, che chiede a cristiani, credenti in altre fedi e non credenti di «dover ragionevolmente attendere la sopravvivenza di un dissenso»24. La ragionevolezza di tale disaccordo può essere garantita però solo se alle convinzioni religiose è riconosciuto «uno status epistemico, che non è semplicemente irrazionale»25. Così all’interno di uno stato, che riconosca a tutti i cittadini eguali libertà etiche, nessuno di questi può negare «un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni del mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa»26. Habermas suggerisce anzi che siano gli stessi “cittadini secolarizzati” a promuovere la traduzione di materiali significativi della lingua religiosa in un linguaggio accessibile a tutti.
La posizione sostenuta dall’allor Cardinal Ratzinger presenta un fondamentale riconoscimento della necessità, affermata da Habermas, di una reciproco apprendere e limitarsi tra concezioni religiose e visioni “secolari”. Egli chiarisce in particolare che le patologie presenti attualmente in alcuni ambiti religiosi – il riferimento va innanzitutto al terrorismo islamico, ma non solo a questo - richiedono che si consideri «la luce divina della ragione come un organo di controllo, dal quale la religione deve costantemente lasciarsi chiarificare e regolamentare»27. D’altra parte patologie altrettanto pericolose sono presenti anche nella ragione, malgrado queste vengano meno avvertite nella cultura contemporanea. Ratzinger si riferisce ad una sorta di ubris che si manifesta nel tentativo di dominio arbitrario dell’uomo sulla realtà e sull’uomo stesso (bomba atomica, produzione della vita umana in provetta). Perciò anche alla ragione devono essere «rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell’umanità»28. è necessario perciò un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione. Ratzinger ritiene che tale rapporto debba essere messo in atto nel contesto interculturale della contemporaneità. Un ruolo fondamentale vengono così a giocare la fede cristiana e la razionalità laica occidentale, in quanto «determinano la situazione globale come nessun’altra delle forze culturali»; ciò non esclude però, ma anzi implica che venga aperto un dialogo tra queste due componenti e altre culture e religioni, in un tentativo di “correlazione polifonica” 29.
Quanto Ratzinger sostiene in tale breve scritto mi pare venga ripreso e approfondito nel discorso tenuto a Ratisbona il 12 settembre del 200630. Qui si ribadisce, in sintonia con ciò che anche Habermas suggeriva, che un fecondo dialogo non può avvenire se si relegano le fedi religiose nell’ambito dell’irrazionale o della “sottocultura”e non si mette in atto un uso aperto, “allargato” della ragione. Questo implica che i fondamentali interrogativi umani circa il “da dove” e “verso dove” non vengano censurati, ma siano pienamente tematizzati, così come accadeva nella filosofia platonica. Il discorso tenuto a Ratisbona mi pare che completi l’articolo sopra citato, in quanto indica un più preciso terreno di incontro tra le diverse culture e religioni: quello dei grandi interrogativi che qualificano la ragione umana in quanto tale. «Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nella sfida del tempo presente»31. è questo l’autentico illuminismo che Benedetto XVI auspica si realizzi.
Le parole del Papa ora citate sembrerebbero segnare una maggiore distanza, rispetto a quanto emerso nel precedente scritto, tra il pensiero di Benedetto XVI e quello del filosofo tedesco. Non credo però, malgrado il carattere “postmetafisico” del suo pensiero, che “l’attuale” Habermas troverebbe del tutto impossibile un confronto all’interno di un pubblico dibattito su interrogativi ultimi. Quale sarebbe però il suo valore “teoretico” e in che modo potrebbe cooperare al darsi di un consenso circa norme? Mi sembra che la posizione stessa sostenuta da Habermas nel dialogo con l’allora cardinal Ratzinger, in quanto riconosce un potenziale carattere veritativo alla religione, non possa negare valore intersoggettivo, “pubblico” alle domande che la caratterizzano; proprio tale constatazione potrebbe condurre ad una revisione almeno parziale della distinzione troppo netta, realizzata all’interno dell’etica del discorso, tra “norme” e “valori”. Questo sembrerebbe portare nella direzione indicata da Putnam, il quale, come si è visto, insiste sulla necessità che il dialogo tra culture non tralasci alcuna dimensione della vita umana. Il filosofo americano auspica l’avvento di un “terzo illuminismo” – dopo quello legato al pensiero greco e al movimento culturale del ‘700 –, un illuminismo “pragmatista” che valorizzi la ragione nel senso suggerito da Dewey, cioè come capacità dell’intelligenza umana di affrontare e risolvere problemi32. Rimane da vedere, come già in parte osservato in precedenza, se tale concezione riconosca veramente alla ragione umana tutta l’estensione che le compete, permetta cioè l’emergere di quelle questioni di senso, la risposta alle quali rappresenta il problema più interessante in cui l’intelligenza umana possa imbattersi.
1 Cfr. H. Putnam, Werte und Normen, in L. Winter- K. Günther (hrsg.), Die Öffentlichkeit der Vernunft und die Vernunft der Öffentlichkeit, Festschrift für Jürgen Habermas, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2001, pp. 280-313. Tale scritto corrisponde quasi interamente al capitolo settimo di H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Fazi Editore, Roma 2004. Cfr. J Habermas, Werte und Normen. Ein kommentar zu Hilary Putnams Kantishen Pragmatismus, in M.L. Raters - M. Willaschek (hrsg.), Hilary Putnam und die Tradition des Pragmatismus, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2002, pp. 280-305. H. Putnam, Antwort auf Jürgen Habermas, in ivi, pp. 306-321.
2 Cfr. Putnam, Fatto/valore cit., pp. 138 e ss..
3 Cfr. ivi, p. 143.
4 Cfr. ivi , p. 135. Se così non fosse la discussione si ridurrebbe a “discorso edificante” nel senso inteso da Rorty; ma questo risulterebbe inaccettabile per Habermas.
5 Cfr. ivi , p. 136.
6 Cfr. ivi , p. 115.
7 Cfr. Habermas, Werte und Normen cit., pp. 291 e ss..
8 Cfr. ivi, p. 292
9 Cfr. ivi, p. 294.
10Cfr. ibid..
11 Cfr. ivi, p. 294.
12Cfr. Putnam, Antworten cit, p. 312.
13Cfr. ivi, p. 310. In questo contesto non è possibile presentare la nozione di verità di Putnam, cui egli stesso qui accenna. Per una trattazione più ampia di questi temi cfr. H. Putnam, Mente, corpo, mondo,trad. it. di E. Sacchi Sgarbi, ediz. it. a cura di E. Picardi, Il Mulino, Bologna 2003. Cfr. anche R. Spinaci, Verità e riferimento nel pensiero di K.O. Apel e H. Putnam,, Napoli, Loffredo Editore, 2001; cfr. anche R. Spinaci, Fatti, valori, norme. Alcune riflessioni sulla concezione etica di Hilary Putnam, in I. Tolomio (a cura di), Rileggere l’etica tra contingenza e principi,Centro studi filosofici di Gallarate, Contributi al LI Convegno per ricercatori universitari e dottorandi di ricerca in discipline filosofiche, Padova 7-8 settembre 2006, CLEUP, Padova 2007, pp. 363-378.
14Putnam, Fatto/valore cit., p. 121.
15H. Putnam, Etica senza ontologia, trad. it di E. Carli, prefaz. di L. Perissinotto, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 34. Putnam prende le distanze non solo da qualsiasi approccio di tipo platonico (ontologia inflazionista), ma anche da uno “eliminativista” e “riduzionista” (ontologia deflazionista: Democrito, Berkeley) e propone la propria concezione come un “pluralismo pragmatico. Cfr. ivi, p. 33.
16 Cfr. J. Habermas, Verità e giustificazione, Saggi filosofici, trad.it. di M. Carpitella, Laterza, Roma- Bari 2001 (ediz. orig. 1999) p. 11, 47, 50 e pp. 225-263.
17 Cfr. Putnam, Antwortcit., p. 319.
18 Cfr. Habermas, Werte und Normen cit., p. 301. Cfr. A questo riguardo J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, trad. it., cura e postfazione di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998.
19 Cfr. Habermas, Werte und Normen cit., p. 303.
20 Putnam, Antwort cit., p. 317.
21 Cfr. J. Habermas-J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di G. Bosetti, trad. it. di L. Lozzi Gallo e R. Capovin, Marsilio Editori, Padova 2005. Questo testo riporta le conferenze presentate da Habermas e Ratzinger nell’incontro tenuto a Monaco presso la Katholische Akademie il giorno 19 gennaio 2004. Il filosofo tedesco afferma la propria adesione ad un liberalismo politico, difeso nella particolare versione del repubblicanesimo kantiano, che «si auto-comprende come una legittimazione non religiosa e post-metafisica dei fondamenti normativi di uno Stato democratico costituzionale». J. Habermas, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in ivi, pp. 41-63, p.43. Cfr. anche J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it. e cura di L. Ceppa, Guerini e Associati, Milano 1996.
22 Böckenförde sosteneva invece che «lo stato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire». Cfr. Habermas, Quel che il filosofo laico cit., p. 41.
23 Cfr. ivi, p. 51.
24 Cfr. ivi, p. 61. Riguardo a questi temi cfr. anche J. Habermas, Tra scienza e fede, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 164 e ss.. Cfr. inoltre J. Habermas, Perché siamo post-secolari, “Reset”, 2008, n. 108 (luglio-agosto) pp. 23-32.
25Habermas, Quel che il filosofo laico cit., p. 62.
26 Ivi. Cfr. anche Habermas, Tra scienza e fede cit., pp. 24 e ss.. Lo stato liberale «non può scoraggiare i credenti e le comunità religiose dall’esprimersi come tali anche politicamente, perché non può sapere se in caso contrario la società laica non si privi di importanti risorse di creazione del senso». Ivi, p. 34.
27 Ratzinger, Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune, in Ragione e fede cit., pp. 65-81, p. 79.
28 Ivi, p. 80.
29 Ivi, p. 81.
30 Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera-Tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, pp. 13-30.
31 Ivi, p. 30.
32 Cfr. Putnam, Etica senza ontologia cit., pp. 145 e ss.. In tale opera Putnam valorizza anche l’apporto dato dalle religioni (tradizione giudaico-cristiana ma anche Confucianesimo) proprio per il superamento di un punto di vista particolaristico in etica. «Penso che il principio di eguaglianza morale degli uomini e l’idea di una morale universale fossero presenti già nelle religioni della tradizione giudaico-cristiana (sono impliciti nell’idea che ogni essere umano è fatto ad immagine di Dio)». Cfr. ivi, p. 139. Per una riflessione di Putnam sulla religione cfr. H. Putnam, Rinnovare la filosofia, trad. it. di S. Marconi, Garzanti, Milano 1998, soprattutto pp. 131-151.
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