La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici
Enrico Berti
Un'apparente obsolescenza
Generalmente si crede che la metafisica sia rifiutata dalla filosofia contemporanea, in quanto ritenuta ormai sorpassata, appartenente ad un'altra epoca, insomma invecchiata. Un argomento di questo tipo, di per sé stesso, non avrebbe alcun valore, né dal punto di vista della metafisica, ma nemmeno - credo - dal punto di vista di qualsiasi altra filosofia non storicistica. Tuttavia coloro che ritengono la metafisica invecchiata attribuiscono a questo argomento un grande valore, sia che si tratti di storicisti incalliti, sia che si tratti di altri, perché tutti sono in qualche misura influenzati dalle mode. Perciò può avere qualche interesse vedere se le cose stiano effettivamente così, cioè se veramente la filosofia contemporanea consideri la metafisica del tutto obsoleta.
Ciò era indubbiamente vero nella prima metà di questo secolo e probabilmente lo è stato sino alla fine degli anni settanta. Allora la scena filosofica internazionale era dominata da correnti quali il neopositivismo, l'esistenzialismo, il marxismo, varie forme di storicismo, tutte dichiaratamente antimetafisiche. Oggi tuttavia la situazione sembra mutata. Il neopositivismo è fallito, quando i suoi sostenitori si sono resi conto che il principio di verificazione, su cui tale filosofia si reggeva, era esso stesso inverificabile, e quindi si autodistruggeva. Al neopositivismo è subentrata la filosofia analitico-linguistica, diventata dominante nell'area culturale anglo-americana e tuttora resistente in tale posizione, malgrado la crisi in cui verserebbe secondo alcuni transfughi da essa. Il marxismo è stato smentito dalla storia, a cui esso stesso affidava il compito di confermare la propria verità, ed è oggi tenuto, proprio dai suoi ex sostenitori, in una considerazione anche minore di quella che meriterebbe. Insieme col marxismo sembra essere tramontato anche lo storicismo, di cui in fondo il marxismo era una forma particolare, poiché nella cultura cosiddetta post-moderna è stata abbandonata l'idea stessa di storia come progresso. L'esistenzialismo è confluito nell'altra grande corrente filosofica oggi dominante, specialmente nel continente europeo, cioè l'ermeneutica, che giustamente è stata chiamata la nuova koinè filosofica del nostro tempo.
è legittimo perciò chiederci se anche le due grandi correnti che oggi dominano la scena filosofica mondiale, cioè la filosofia analitica e l'ermeneutica, siano così dichiaratamente anti-metafisiche come lo erano le precedenti. Apparentemente sì, perché alcuni filosofi analitici (Quine, Putnam) continuano a considerarsi anti-metafisici e l'intera filosofia analitica, nell'opinione comune, non viene ancora sufficientemente distinta dal neopositivismo. Altrettanto si può dire dell'ermeneutica, a causa delle sue origini heideggeriane e del fatto che alcuni tra i suoi più significativi rappresentanti (per esempio Vattimo) considerano la metafisica irrimediabilmente finita. Tuttavia si tratta, a mio giudizio, solo di un'apparenza. Vorrei infatti mostrare, sia pure molto brevemente e sommariamente, che l'antimetafisicismo ancora persistente in alcuni filosofi analitici e in alcuni ermeneutici da un lato è legato ad un'idea della metafisica che chiamerei “sovradeterminata”, cioè più determinata, più forte, più dura di quella oggi professata da molti metafisici, e dall'altro non è in alcun modo connesso con le ragioni stesse della filosofia analitica o dell'ermeneutica, e perciò non è nemmeno di fatto professato da molti filosofi analitici o ermeneutici. Indi cercherò anche di mostrare, sempre molto sommariamente, che il significato originario della metafisica è molto meno sovradeterminato di quanto si creda, o di quanto sia divenuto in seguito alle successive concrezioni storiche cui la metafisica è andata soggetta, e perciò è possibile professare una forma più “debole” di metafisica, molto più compatibile con la filosofia contemporanea di quanto lo sia quella tradizionale.
Parentesi epistemologica
L'aggettivo “debole” ha avuto una grande fortuna nel pensiero contemporaneo da quando è stato usato per qualificare un modo di pensare, il cosiddetto “pensiero debole”, che rinuncia a categorie “forti”, quali vero e falso, valido e invalido, o a valori “forti”, quali bene e male, giusto e ingiusto, per accontentarsi di posizioni più sfumate, meno categoriche. In realtà dal punto di vista epistemologico è giusto chiamare “debole” una teoria che non pretende di determinare in un unico modo ogni cosa, ma ammette una pluralità di possibilità . Per esempio l'affermazione che “tutti i cigni sono bianchi”, se pretendesse di essere una teoria scientifica, sarebbe una teoria epistemologicamente forte, la quale ci fornirebbe un'informazione molto importante e precisa intorno ai cigni, mentre l'affermazione che “alcuni cigni sono bianchi”, se pretendesse anch'essa di essere una teoria scientifica, sarebbe una teoria epistemologicamente debole, che in sostanza non ci direbbe gran che intorno ai cigni e non andrebbe molto al di là di quanto si può constatare attraverso la semplice osservazione sensibile.
Ebbene, è sotto gli occhi di tutti il fatto che le teorie più forti dal punto di vista epistemologico, cioè le più ricche di informazioni, sono le più deboli dal punto di vista logico, cioè dell'argomentazione, perché è facilissimo confutarle. Per confutare, infatti, l'affermazione che “tutti i cigni sono bianchi” è sufficiente trovare un solo esempio di cigno nero. Invece le teorie più deboli dal punto di vista epistemologico, cioè le più povere di informazioni, sono le più forti dal punto di vista logico, perché sono molto più difficili da confutare. Per confutare, infatti, l'affermazione che “alcuni cigni sono bianchi”, bisognerebbe riuscire a dimostrare che tutti i casi di cigni bianchi di cui abbiamo esperienza sono in realtà delle semplici illusioni ottiche: cosa alquanto difficile.
Lo stesso vale per le metafisiche: una metafisica forte, quale era ad esempio quella di Parmenide, secondo cui (semplificando molto) “tutte le cose sono immobili”, o anche quella di Eraclìto, secondo cui (sempre semplificando) “tutte le cose sono in movimento”, è facilissima da confutare: basta infatti mostrare, nel primo caso, che c'è qualcosa di mobile, per esempio la semplice apparenza del movimento, e nel secondo che c'è qualcosa di immobile, per esempio l'affermazione stessa che tutto è in movimento. Invece una metafisica debole, quale sarebbe l'affermazione (verosimilmente platonica o aristotelica) che “qualcosa si muove e qualcosa è immobile”, sarebbe molto più difficile da confutare, e perciò dovrebbe essere considerata come logicamente molto forte.
Questa, del resto, è la forza delle filosofie oggi dominanti, cioè la filosofia analitica e l'ermeneutica. Entrambe, infatti, sono teorie epistemologicamente deboli, che non si impegnano in affermazioni di carattere totalizzante, cioè in quelle che un tempo venivano considerate le “ideologie”, o le “grandi narrazioni”, ma si accontentano di proporre più che altro un metodo, sempre nel senso debole del termine, cioè un modo di filosofare, uno stile di pensiero. Perciò credo che una metafisica “debole”, o comunque non eccessivamente sovradeterminata, sia in realtà difficile da rifiutare e sia in fondo compatibile con molte correnti filosofiche odierne, specialmente con quelle oggi dominanti. In questo senso l'obsolescenza della metafisica potrebbe essere solo apparente.
Metafisica e filosofia analitica
Una delle conseguenze della fine del neopositivismo e del dogma in esso contenuto, conseguente al principio di verificazione, secondo il quale solo il linguaggio scientifico è sensato, è stata - sempre nell'ambito della “svolta linguistica”, da cui in fondo anche il neopositivismo era nato - l'ammissione che anche altre forme di linguaggio possano essere dotate di senso e quindi meritino di essere fatte oggetto di analisi da parte della filosofia. è nata così la filosofia analitico-linguistica (per tradurre il più appropriato aggettivo tedesco sprach-analytisch), che si è poi divisa in due correnti: quella basata sulla convinzione (risalente a Russell) che il linguaggio ordinario, per essere pienamente dotato di senso, dovesse essere formalizzato, cioè tradotto nei simboli e nei calcoli della logica-matematica, e quella basata sulla convinzione (risalente a Moore) che ciò non fosse necessario, ma si potesse benissimo ritrovare un senso anche nei linguaggi non formalizzati, o non formalizzabili, come quelli dell'etica, dell'estetica, della stessa metafisica. è significativo il fatto che il più grande filosofo analitico del secolo, cioè Wittgenstein, abbia aderito dapprima, cioè nel Tractatus logico-philosophicus, alla prima corrente, la quale del resto era la più vicina al neopositivismo (cioè al Circolo di Vienna), ed in seguito, cioè nelle Ricerche filosofiche, alla seconda (forse anche per influenza di Moore, che lo chiamò ad insegnare a Cambridge negli anni trenta).
Al primo Wittgenstein si richiama oggi la parte prevalentemente americana della filosofia analitica, forse anche per l'influenza esercitata dai neopositivisti emigrati negli Stati Uniti durante il nazismo, la quale ha il suo maggiore rappresentante in Quine e, pur avendo superato il neopositivismo (di cui lo stesso Quine ha denunciato i “dogmi”), mantiene un residuo di neopositivismo nel suo “fisicalismo”, cioè nella convinzione che solo la scienza, ed in particolare la fisica, ci dia autentiche informazioni sulla realtà. Al secondo Wittgenstein si richiama invece la parte più specificamente inglese della filosofia analitica, la quale più ancora che a Cambridge si è sviluppata a Oxford ed ha fatto dell'analisi del linguaggio ordinario la sua principale occupazione. Ebbene, come è noto a tutti, proprio in quest'ultima corrente della filosofia analitica, che è certamente la più “debole” dal punto di vista epistemologico, ma per questo è anche la più aperta, la più “simpatica” e quindi la più influente, si è completamente riaperto anche lo spazio per la metafisica. Ma ciò è avvenuto, come vedremo subito, non solo in essa.
Già i primi rappresentanti della scuola di Oxford, cioè Austin e Ryle, esercitando la propria analisi linguistica, fra l'altro, anche sulle parole più interessanti dal punto di vista della metafisica, quali “bene” e soprattutto “essere”, nonché sui diversi significati di quest'ultimo, cioè sulle “categorie”, avevano riaperto il discorso metafisico, riallacciandosi alla sua più antica formulazione, quella fornita da Platone e Aristotele. Essi, infatti, erano anche degli eccellenti grecisti e conoscitori della filosofia antica, come si addice a degli studiosi formatisi nella grande tradizione classicistica di Oxford. Non a caso dall'insegnamento di Austin e di Ryle è nata a Oxford quella che oggi è forse la maggiore scuola di intepreti di Aristotele, iniziata da Owen e Ackrill e sviluppata sia in Inghilterra che negli Stati Uniti da un gran numero di eccellenti studiosi, alla quale risale la celebre teoria del focal meaning come capace di restituire una qualche unità alla metafisica, senza rinnegare la fondamentale e irriducibile multivocità dell'essere.
Ma tale discorso è stato ripreso e portato ad esiti metafisici senz'altro importanti da un filosofo analitico come Strawson, che nel libro intitolato Individui (del 1959) ha sviluppato quella che lui stesso chiama una “metafisica descrittiva”, paragonabile a quelle di Aristotele e di Kant, cioè mirante a descrivere come deve essere fatto il mondo perché possa fungere da riferimento per il nostro linguaggio e rendere in tal modo possibile quella comunicazione che noi di fatto constatiamo esistere. In base a tale metafisica il mondo risulta essere costituito da realtà particolari, cioè da individui, i quali si dividono in particolari di base, o primari, che sono i corpi materiali e le persone, e in particolari secondari, che sono tutte le altre realtà identificabili grazie alla loro relazione con i particolari di base. Ne risulta così (semplificando molto) una visione quasi aristotelica dell'essere, diviso in sostanze e accidenti, che fungono rispettivamente da soggetti e da predicati dei nostri enunciati.
Contemporaneamente negli Stati Uniti Quine ha posto il problema dell'identità e dell'individuazione degli oggetti, condizioni necessarie perché questi possano fungere da riferimenti per il nostro linguaggio (cfr. Parola e oggetto, 1960), e tale problema in alcuni casi è stato risolto attraverso forme di vero e proprio essenzialismo, come nel caso di Kripke, o comunque di esplicito neoaristotelismo, come nel caso di Wiggins. Ciò significa che si sono riconosciuti come indispensabili per l'identificazione degli oggetti a cui si riferiscono le nostre parole, concetti come quelli di “sostanza”, di “essenza” e di “forma”. Su quest'ultima posizione si è avuta recentemente la convergenza di un filosofo “antimetafisico” come Putnam, il quale in Words and Life (1994) ha introdotto un capitolo dal titolo “Aristotele dopo Wittgenstein”, dove sostiene che il rapporto di intenzionalità tra linguaggio (o pensiero) e oggetti esige il ricorso al concetto di “forma”, inteso non in senso logico, come avveniva in Wittgenstein, bensì in senso metafisico, come era proprio di Aristotele. Maggiori difficoltà alla soluzione di questo problema sono state incontrate invece da un altro filosofo americano, cioè Davidson, il quale, avendo preferito servirsi, per spiegare il mondo, del concetto di “evento” piuttosto che di quello di “sostanza”, ha dovuto poi ricorrere a quello di causalità (efficiente) per spiegare il rapporto fra linguaggio ed oggetti.
In ogni caso, tra sostanza e forma, evento e causa, l'intera filosofia analitica si muove oggi in un ambito di problemi che i suoi stessi cultori non esitano a chiamare “metafisici” e il termine “metafisica” non è affatto ostracizzato dalla discussione filosofica, ma anzi sta a indicare, più che un orientamento filosofico particolare, una disciplina filosofica dotata di piena dignità accanto ad altre quali la logica, l'etica o l'estetica, come testimonia il recente fiorire di numerose e grosse antologie intitolate Metaphysics (ben tre di queste sono uscite tra il 1998 e il 1999, tutte per i tipi di un'unica casa editrice, cioè Blackwell). I problemi che questa disciplina si impegna a risolvere sono del tipo: che cosa esiste? (what is there?), quali sono i principali tipi o generi di oggetti? Quale tipo di esistenza possiedono gli universali? e le proprietà, e i numeri? Come si può identificare un oggetto? Che cosa assicura il perdurare dell'identità di un oggetto in condizioni mutate di spazio e di tempo? Si tratta, come si vede, di problemi che tradizionalmente vengono affrontati nella parte, per così dire, “ontologica” della metafisica e che non implicano alcuna visione totalizzante, o alcuna verità assoluta, e quindi costituiscono un tipo di metafisica “debole”, la metafisica tipica della filosofia analitica.
Certo, questo tipo di metafisica, se confrontata con quella tradizionale, rivela un limite ben preciso, cioè manca quasi completamente della parte che tradizionalmente veniva chiamata “teologica”, cioè la cosiddetta teologia razionale. Questo non perché ci siano particolari difficoltà a chiedersi quale tipo di esistenza appartenga a Dio affinché egli possa fungere da riferimento sensato per il nostro linguaggio, ma probabilmente perché una filosofia che si concepisce essenzialmente come analisi linguistica non si preoccupa di ricercare la cause reali, ed ultime, degli enti, ma solo le condizioni alle quali essi possano fungere da riferimenti per il nostro linguaggio. Quando, poi, i filosofi di formazione analitica tentano di andare oltre questo limite, ponendosi il problema di una causa ultima, inevitabilmente fanno ricorso alla scienza, in particolare alla fisica, magari presentando l'esistenza di Dio come l'ipotesi scientifica più semplice e più probabile per spiegare l'esistenza e la complessità del mondo. è questo il caso, ad esempio, di un filosofo come Swinburne, allievo di Austin e lui stesso oggi professore a Oxford.
Metafisica ed ermeneutica
Non molto diversamente stanno le cose nell'altra grande corrente filosofica che domina il nostro tempo, specialmente in area europea continentale, cioè l'ermeneutica. Anche qui l'apparenza è decisamente antimetafisica: basti pensare a Heidegger, universalmente considerato il fondatore dell'odierna ermeneutica filosofica (l'ermeneutica della “fatticità”), il quale ha dichiarato ufficialmente il “superamento” (Ueberwindung, termine che egli peraltro ha ripreso da Carnap ed ha usato con un significato diverso) della metafisica, accusandola di avere frainteso il senso della verità , scambiata fin dal tempo di Platone con l'esattezza, e di avere dimenticato l'essere, scambiato fin dal tempo di Aristotele con l'ente. In Heidegger abbiamo un caso tipico di sovradeterminazione della metafisica. Malgrado, infatti, la sua conoscenza diretta e profonda dei grandi metafisici greci, non c'è dubbio che Heidegger tende ad interpretarli, specialmente Aristotele, alla luce dell'interpretazione scolastica (e kantiana, che è la stessa).
La metafisica, a partire da Aristotele, secondo Heidegger è un'onto-teologia, cioè una scienza dell'essere che riduce quest'ultimo ad un ente, sia pure l'ente sommo, cioè Dio. Ora, questa interpretazione è possibile solo se si intende Dio come l'Esse ipsum, alla maniera della Scolastica, cosa che ad Aristotele non accade affatto, perché per Aristotele intanto tra l'ente e l'essere non c'è altra differenza che quella che passa tra il participio e l'infinito di uno stesso verbo, cioè tra il soggetto e il predicato di un enunciato, e poi non c'è nessuna riduzione dell'essere ad un particolare ente, perché l'essere mantiene, anche dopo essere stato spiegato attraverso molteplici cause, tutta la sua multivocità. Del resto anche dal punto di vista storico è stato accertato che la concezione heideggeriana della metafisica come onto-teologia dipende prima dall'influenza del libro di Brentano su Aristotele, che ne dà un'interpretazione fondamentalmente scolastica, e poi dall'influenza degli studi di Natorp sempre su Aristotele, che ne danno un'interpretazione kantiana (cioè basata sulla distinzione tra ontologia, o metaphysica generalis, considerata valida, e teologia razionale, o metaphysica specialis, considerata non valida).
In pratica Heidegger riduce la metafisica, quale si è costituita e sviluppata da Aristotele in poi, essenzialmente ad una fisica (nel senso moderno, non aristotelico, del termine), cioè ad una scienza dell'ente particolare, oggettivabile, rappresentabile, disponibile, utilizzabile. Ma - e questa è la cosa più interessante - Heidegger afferma la necessità di superare questa metafisica, di oltrepassarla, magari attraversandola (questo sembra essere il significato di Ueberwindung), insomma di andare oltre, al di là di essa. Ebbene, se la metafisica di cui Heidegger parla è essenzialmente una fisica, come credo che sia, allora il superamento, o l'oltrepassamento, di tale metafisica, è in realtà un oltrepassamento della fisica, cioè è esattamente ciò che gli editori di Aristotele intesero dire quando chiamarono la filosofia prima di Aristotele “meta-fisica”, che vuol dire “oltre-fisica”, “scienza che va al di là della fisica”. In questo senso si può dire che anche Heidegger ammette la metafisica, sia pure con un significato completamente diverso da ciò che egli intende con questa parola.
Ma veniamo ad altri esponenti dell'odierna ermeneutica, cioè Gadamer, Pareyson, Ricoeur. Per quanto concerne Gadamer, gli ho sentito dire più volte - e probabilmente l'avrà anche scritto - che egli non ha nessun motivo di opporsi ad una “metafisica della finitudine”, espressione con la quale evidentemente intende una metafisica che non pretenda di essere un sapere assoluto, definitivo, oggettivo nel senso in cui lo sono le scienze fisiche, mirante a darci una conoscenza esaustiva dell'intera realtà, la quale sarebbe incompatibile con la nostra finitezza. Questo sarebbe infatti un altro esempio di sovradeterminazione della metafisica. Ma, una volta ricondotta alla finitudine, cioè all'effettiva condizione umana, e liberata da ogni pretesa di assolutezza, di esaustività e di definitività, cioè una volta “indebolita”, la metafisica per Gadamer sarebbe interamente compatibile con l'ermeneutica, anzi probabilmente coinciderebbe con quest'ultima. Probabilmente la stessa cosa avrebbe detto Pareyson (come vedremo subito) e direbbe Ricoeur (per il quale la “finitudine” è un tema consueto).
Prendiamo, tuttavia, il filosofo che può essere considerato il più radicalmente antimetafisico rappresentante dell'ermeneutica, cioè Vattimo. Questi ha compiuto un passo oltre Heidegger, da cui dichiara esplicitamente di prendere le mosse, eliminando l'essere e riducendo l'ente, ogni ente, esclusivamente ad “evento”, non l'Evento (Ereignis) con la maiuscola, con cui Heidegger identifica l'essere nei Beitraege, ma i molteplici e continui eventi di cui è formata la nostra vita e la storia tutta intera. Naturalmente questo è da lui considerato un ulteriore allontanamento dalla metafisica, un ulteriore passo verso la secolarizzazione, perché anche per Vattimo la metafisica è sovradeterminata, cioè è una scienza di strutture fisse, oggettive, eterne. Ebbene, proprio Vattimo, nel suo ultimo libro (Credere di credere, 1998), riconosce che l'“e-vento”, come dice la parola stessa, è un “venire da” altro, cioè non da noi stessi, e che perciò noi siamo un'iniziativa iniziata da altri (a questo proposito egli cita il suo maestro Pareyson). Probabilmente per Vattimo tale riconoscimento ha un significato più religioso che filosofico, cioè è quella forma di fede che gli consente di “credere di credere”. Ma non si può negare che esso sia, sia pure in nuce, una vera e propria metafisica, cioè una “metafisica debole”, non sovradeterminata, perciò logicamente fortissima.
Una metafisica non sovradeterminata
La metafisica che, a mio modo di vedere, può essere accettata anche dalla filosofia analitica e dall'ermeneutica, è una metafisica molto più debole e più povera di quella tradizionale, specialmente di quella moderna con cui ebbe a che fare Kant, ma anche di quella scolastica che ha sempre in mente Heidegger. Essa è la più antica metafisica debole, vale a dire la metafisica di Aristotele, così come è stata interpretata dalla filosofia analitica (Owen) e dalla stessa ermeneutica (Aubenque), naturalmente con alcune correzioni a queste interpretazioni, di cui mi prendo la responsabilità. Questa metafisica è anzitutto, come diceva Aristotele, la scienza dell'essere in quanto essere, dove per “scienza” si intende la ricerca delle cause, cioè delle spiegazioni, di un dato di esperienza, e per “essere in quanto essere” (o “ente in quanto ente”, che è esattamente lo stesso) si intende qualsiasi ente (cosa, proprietà, evento, processo, situazione, sentimento), considerato non in qualche suo aspetto particolare, ma nel semplice fatto di essere, cioè nella sua esistenza. Essa perciò si distingue dalle altre scienze, o ricerche di cause, perché queste considerano sempre un aspetto particolare dell'ente, cioè considerano l'ente dal loro punto di vista particolare, che può essere quello della fisica, o della chimica, o della biologia, o della psicologia, ecc. Tale aspetto particolare è l'“oggetto” delle singole scienze, un oggetto isolato, astratto, o idealizzato, o costruito mediante un'operazione, come spiega molto bene Agazzi nel suo intervento in questo stesso fascicolo.
Invece la metafisica, indagando, cioè proponendosi di spiegare, l'essere di tutti gli enti, li considera in qualche modo tutti insieme, perciò le cause che essa cerca sono in qualche modo, cioè come cause dell'essere, cause di tutto, e per questa ragione sono dette “cause prime” o “princìpi”. Se esse, infatti, devono essere cause di tutto, non possono avere a loro volta delle cause, altrimenti non sarebbero più cause di tutto: questo significa “cause prime”. Ma cercare le cause di tutto, cioè dell'essere in quanto essere, ovvero le cause prime, significa collocarsi dal punto di vista dell'”intero”, cioè problematizzare, vale a dire ridurre a problema, l'intera realtà che ci è data nell'esperienza, ovvero - come diceva il mio maestro Marino Gentile - esercitare “un domandare tutto che è tutto domandare”. Dunque la metafisica è essenzialmente un atteggiamento di pura problematicità , che investe l'intera esperienza senza presupporre nessuna certezza, nessuna soluzione precostituita. In questo senso essa coincide con la stessa criticità, cioè con un atteggiamento radicalmente critico, quale si conviene alla filosofia anche dal punto di vista del pensiero moderno.
In questa concezione della metafisica si recuperano sia la problematica ontologica sviluppata oggi dalla filosofia analitica, sia quella sviluppata dall'ermeneutica. Come ha mostrato, infatti, G.E.L. Owen, il carattere problematico dell'essere in quanto essere si manifesta anzitutto nella molteplicità dei suoi significati, irriducibili ad un genere unico, e tuttavia bisognosi di una qualche unità, pena la totale inintelligibilità dell'essere, cioè la caduta nell'irrazionalismo. Ebbene, proprio la filosofia analitica, con Austin dapprima e con lo stesso Owen poi, ha trovato nella metafisica di Aristotele una prima soluzione, che consente di dare qualche unità ai molti significati dell'essere, cioè quella che è stata chiamata la teoria del focal meaning, secondo la quale l'ousìa, ovvero la sostanza, è il significato focale dell'essere, quello in relazione al quale stanno tutti gli altri e che è quindi logicamente presupposto da tutti gli altri. Naturalmente per sostanza non si deve intendere un substratum obscurum, come credeva Locke, ma ogni individuo (Strawson direbbe ogni particolare di base) di cui abbiamo esperienza. Sempre la filosofia analitica, con G. Patzig e M. Frede, è giunta a mostrare, ancora sulla scorta di Aristotele, che l'ousìa è a sua volta problematica, cioè ha molteplici significati, il primo dei quali è la forma, o essenza, perché questa è la causa dell'essere delle sostanze, cioè della loro determinatezza, della loro identità. Si potrebbe citare, a questo proposito, il celebre esempio della nave di teseo, che rimane la stessa anche quando si cambiano tutti i pezzi materiali di cui è fatta. Nella teoria aristotelica della forma si è così trovata anche la soluzione al problema dell'identità, che consente l'identificazione e la reidentificazione degli individui, e quindi garantisce un riferimento univoco al linguaggio comunicativo.
Dal canto suo l'ermeneutica, specialmente con Heidegger, si è a sua volta impegnata nella ricerca di un'unità tra i molteplici significati dell'essere, indicandola prima (per influenza di Brentano) nella sostanza, poi (per influenza di Husserl) nella verità ed infine, sulla scia dello stesso Aristotele, nell'atto. Sulla dottrina della potenza e dell'atto ha infatti concentrato la sua indagine l'ultimo Heidegger, illustrando prima il significato dinamico della potenza come “motilità” e poi il primato dell'essere come atto, cioè come attività, se si vuole come “evento” (Er-eignis, che in tedesco significa rendersi proprio a qualcuno, cioè donarsi). L'interpretazione heideggeriana della metafisica di Aristotele è stata genialmente ripresa, sia pure con esiti aporetici, soprattutto da P. Aubenque, il quale - grazie alla sua insistenza sulla multivocità, e quindi sulla problematicità, dell'essere aristotelico - ha fatto dire a un filosofo post-moderno come Lyotard: “le philosophe dont je me sens le plus près c'est finalement Aristote”.
Sia la filosofia analitica che l'ermeneutica, tuttavia, hanno a mio avviso frainteso il senso autentico della metafisica di Aristotele, concependo il principio che conferisce unità all'intero essere rispettivamente come forma separata, avente nei confronti di tutte le altre forme la stessa priorità di carattere logico che la forma ha nei confronti della sostanza e la sostanza nei confronti della altre categorie, oppure come atto di essere, cioè come ente la cui essenza è lo stesso essere. In entrambi i casi la metafisica di Aristotele è stata scambiata con una metafisica di tipo platonizzante o neoplatonizzante, cioè con una metafisica partecipazionistica, gradazionistica, riduzionistica, del tipo ripreso poi nella Scolastica, ma anche nella filosofia moderna. La sola differenza tra le due interpretazioni, quella analitica e quella ermeneutica, è che nella prima tale metafisica è stata esplicitamente attribuita ad Aristotele (si vedano soprattutto gli studi di Patzig e Frede), mentre nella seconda si è ritenuto che Aristotele tendesse a tale posizione, realizzata poi dalla Scolastica, senza tuttavia riuscire a raggiungerla (si vedano soprattutto gli studi di Aubenque).
Invece la metafisica, nella sua formulazione di origine aristotelica, concepisce il principio primo dell'essere come attività di pensiero, cioè come intelligenza, o spirito, che è causa di tutti gli enti non in quanto possieda una priorità logica nei confronti di essi, cioè sia la causa formale di essi, e dunque consenta in qualche modo di dedurli, ma in quanto possiede quella priorità ontologica che è propria della causa efficiente, spiegazione del movimento, cioè fonte ultima del divenire, e movimento perfetto, cioè attività immobile, in sé stessa. In quanto tale, questo principio è radicalmente trascendente, cioè diverso, totalmente altro, rispetto al mondo dell'esperienza, ed è tale per cui il mondo dell'esperienza non può in alcun modo essere dedotto da esso; perciò il principio non estingue la problematicità, la contingenza, la varietà, l'imprevedibilità, l'“eventualità”, dell'esperienza stessa (da cui l'apprezzamento di Lyotard).
Naturalmente, se vogliamo esprimerci col linguaggio più tradizionale (che tende a produrre la sovradeterminazione e quindi a risuscitare tutte le diffidenze e i pregiudizi antimetafisici), dobbiamo dire che questo principio non è altri che Dio e il rapporto che deve instaurarsi tra esso e il mondo dell'esperienza, affinché esso possa rendere pienamente ragione di questo e al tempo stesso conservarne intatta la problematicità, non è altro che la creazione. Perciò è legittimo porci anche la domanda tradizionale se l'esistenza di Dio e la creazione siano dimostrabili razionalmente. La risposta dipende da ciò che si intende per dimostrare. Se si intende il dedurre proprio delle dimostrazioni geometriche, la risposta non può essere che negativa. Ma se si intende quel dimostrare per via di confutazione che è proprio della filosofia (come ha riconosciuto anche un filosofo analitico quale Ryle), la necessità di un principio trascendente è dimostrabile nel senso che è confutabile ogni sua negazione, vale a dire ogni forma di assolutizzazione del mondo dell'esperienza. A rigore la stessa richiesta di una dimostrazione dell'esistenza di Dio è la prova della sua trascendenza: se Dio infatti, cioè l'assoluto, fosse immanente al mondo dell'esperienza, sarebbe lui stesso oggetto di esperienza e dunque non avrebbe bisogno di essere dimostrato.
In fondo il problema della metafisica, anzi la metafisica stessa in quanto problematizzazione totale dell'esperienza, cioè una metafisica essenzializzata e non sovradeterminata, e perciò logicamente fortissima, è formulabile come la semplice domanda se l'esperienza sia essa stessa l'assoluto, cioè se basti a se stessa, se si spieghi interamente da sé. Chi, oggi, è disposto, sia tra gli analitici che tra gli ermeneutici, a sostenere che l'esperienza è l'assoluto? Tutti ammettono un livello di discorso, o di pensiero, ulteriore rispetto a quello empirico, cioè il livello concettuale. Ma questo è solo il discorso scientifico? Cioè: la scienza è veramente in grado di risolvere il problema dell'essere? Non dimentichiamo che il suo punto di vista è sempre parziale, astratto, in qualche modo costruito. Chi è veramente convinto che la scienza risolva tutti i problemi? Non certo gli ermeneutici, che ammettono altri discorsi, diversi da quello scientifico, e riconoscono la problematicità dell'esistenza umana, cioè dell'esperienza (abbiamo visto sopra la posizione di Vattimo).
Ma nemmeno gli analitici sono convinti che la scienza risolva tutti i problemi, a meno che non siano fisicalisti, o riduzionisti, o scientisti, cioè in qualche modo metafisici, ma nel senso di una cattiva metafisica, professata per lo più inconsapevolmente e ingiustificatamente. Ora, non tutti gli analitici sono riduzionisti, né ci sono ragioni cogenti, dal punto di vista della filosofia analitica, perché lo siano. Ciò che caratterizza, piuttosto, la filosofia analitica è la circoscrizione della sua indagine al linguaggio, e quindi una certa limitazione del processo di problematizzazione dell'intera realtà. Fino a che, infatti, le condizioni di intelligibilità che si ricercano sono solo relative a linguaggio, si tratterà sempre di condizioni logico-linguistiche, cioè, in termini aristotelici, di cause formali, e non di cause efficienti. Ma nulla vieta che la filosofia analitica ammetta un livello di problematizzazione ulteriore, che investe lo stesso essere, cioè il riferimento del linguaggio, e che pertanto fa ricorso a un tipo diverso di condizioni, non solo logiche, ma specificamente ontologiche.
Insomma, dal punto di vista logico, la negazione di una metafisica epistemologicamente “debole”, quale è il riconoscimento della problematicità, vale a dire della contingenza, della precarietà, dell'insufficienza del mondo dell'esperienza (o della vita, o della storia), non potrebbe configurarsi se non come una posizione epistemologicamente molto forte, quale l'affermazione che il mondo dell'esperienza (o della vita, o della storia) è l'assoluto, cioè è espressione di una razionalità pienamente realizzata, di un ordine perfetto, di una struttura del tutto autosufficiente e capace di spiegarsi da sé (una spiegazione di questo tipo è anche il ricorso al caso, perché può spiegare tutto e il contrario di tutto, ed è del tutto incontrollabile). Ma una posizione di tal genere è debolissima dal punto di vista logico, cioè è facilissima da confutare, perché innumerevoli sono gli esempi di contingenza, di precarietà, di finitezza, che si possono addurre a smentita di essa. Per questo credo si possa dire che oggi, dopo la crisi dello storicismo e il tramonto delle ideologie in generale, una metafisica essenzializzata e ridotta ad affermazione della problematicità dell'esperienza, è tutt'altro che superata ed obsoleta, ma anzi sta al centro della filosofia contemporanea, sia nella sua componente analitica che in quella ermeneutica.
Appendice “teologica”
Sono convinto che le maggiori difficoltà ad accettare la metafisica provengano, oggi, più che dal versante filosofico, o da quello scientifico, dal versante teologico. Non è un caso, infatti, che l'ultima enciclica pontificia, la Fides et ratio - la quale, non bisogna dimenticarlo, come tutte le encicliche è diretta ai vescovi, responsabili anche dell'organizzazione delle scuole cattoliche, ed al massimo ai filosofi credenti, non certo ai non credenti, che invece hanno avuto reazioni polemiche come se il papa si rivolgesse a loro - raccomandi essenzialmente di non trascurare la metafisica. Paradossalmente l'intenzione di essa è stata colta, meglio che da tanti altri commentatori, dal suo critico più polemico, almeno in Italia, cioè il direttore della rivista “Micro-mega”, il quale vi ha scorto essenzialmente il tentativo di contrastare una “deriva protestante” interna alla stessa Chiesa cattolica. L'ostilità verso la metafisica è diffusa, infatti, ancor più nella teologia protestante, a causa dell'anti-aristotelismo viscerale di Lutero (ma suppongo anche in quella della Chiesa ortodossa). Proprio queste posizioni mostrano che il rifiuto della metafisica spesso si accompagna al rifiuto della stessa filosofia, che a volte significa addirittura rifiuto, o disprezzo, della razionalità. Sarebbe perciò alquanto strano, ed in effetti accade oggi molto di rado, che la filosofia rifiutasse pregiudizialmente la metafisica, una metafisica - ripeto - non sovradeterminata, ma consistente essenzialmente in una problematizzazione radicale del mondo dell'esperienza.
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